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«Santità personale e una laboriosa attività dietro le quinte»

intervista a Don Amorth
(tratto dalla rivista Madre di Dio)


D. – Don Amorth, lei è un paolino, figlio spirituale di don Alberione, di cui ha seguito il carisma e che ha conosciuto personalmente. Tra le tante vite di santi che si conoscono, secondo lei quali sono state le caratteristiche specifiche della santità di don Alberione? C’è una santità che ha un particolare colore paolino, diversa ad esempio da un san Francesco il quale ha sviluppato un altro tipo di carisma? Se dovesse connotare don Alberione, la sua santità “paolina”, come lo farebbe?

R. – La santità di don Alberione prima di tutto che è stata una santità acquisita, cioè don Alberione aveva un carattere infelice, non aveva un carattere facile, era un super timido, che come tutti i timidi aveva poi delle reazioni assolutamente spropositate quando gli scappavano i cavalli, quando non ne poteva più, e direi che è diventato santo, non è nato santo. Proprio il capolavoro di don Alberione, a mio parere non sono tanto le dieci fondazioni, quanto soprattutto l’autocontrollo totale e completo che ha saputo acquistare su se stesso. Mi diceva un suo fedelissimo che per anni fu suo segretario - don Michelino Gagna, un nostro sacerdote che morì in Congo portando in salvo l’Eucaristia, mitragliato dagli aerei degli alleati - mi diceva: “Ecco io vedo la santità di Alberione non tanto quando so di miracoli, di cose particolarmente prodigiose che ha compiuto, ma quando vedo che sta per scoppiare, per scattare – in altri tempi sarebbe scattato – e invece fa un sorrisetto e sta zitto. Ossia questo autocontrollo che ha acquistato su di sé”.



Don Amorth in atteggiamento affettuoso con Don Alberione.

Direi anche una santità veramente paolina, perché la santità di don Alberione si è formata strettamente dalla lettura continua, la meditazione quotidiana della Sacra Scrittura, soprattutto del nuovo Testamento e delle Lettere di san Paolo, che conosceva molto bene. Ha cercato di imitare san Paolo il più che ha potuto, perché, grazie alla conoscenza profonda che ne aveva acquistato, aveva anche trovato che in san Paolo c’erano delle caratteristiche e delle affinità con lui. San Paolo indubbiamente era un carattere caldo, impulsivo – anche san Paolo aveva il suo caratterino, non era tutto latte e miele – e lo vediamo bene in varie circostanze della sua vita, quando gli capitava anche di scattare e di essere impulsivo. Direi che don Alberione aveva visto anche sotto questo aspetto in san Paolo un qualche cosa che era in parte conforme al suo carattere naturale. Per cui si è affezionato moltissimo a questo apostolo e ha cercato in tutto di imitarlo, nella santità della vita, nella preghiera, nell’apostolato universale di andare a tutti gli uomini.

D.Il vangelo ci dice che i figli di Dio si riconosceranno dai loro frutti: lei ci ha parlato soprattutto dei frutti dal punto di vista delle virtù personali, mi sembra che abbia messo molto l’accento su questo. Quali sono stati anche i “frutti apostolici” che hanno caratterizzato il suo operato, a differenza di un Francesco, a differenza di un sant’Ignazio di Loyola? Quali sono i frutti apostolici concreti che hanno caratterizzato l’identità e la missione paolina, insieme alla santità personale?

R. – C’è da dire che l’intuizione fondamentale di don Alberione, quello che lo caratterizza in maniera totale, è avere compreso l’importanza degli strumenti della comunicazione sociale non come complementari della predicazione, ma come necessari alla predicazione. Ossia lui ragionava così: dava una spiegazione particolare della frase di Gesù “Andate in tutto il mondo e predicate alle genti”. “Andate e predicate” - spiegava don Alberione - “Gesù con queste parole ci ha insegnato non ad aspettare gli uomini, ma ad andare a cercarli, ad andare loro incontro. Ora, dove li troviamo questi uomini? Nella maggior parte dei casi non li troviamo nelle nostre chiese, dove sono loro che vengono a noi. Dobbiamo andare a cercarli nelle loro case, nei loro ambienti di lavoro, nei loro uffici. In che modo?” Ecco qui la grande importanza di Alberione al mezzo che allora era predominate, alla stampa. Poi ha lasciato scritto di usare anche il cinema, e si è interessato moltissimo della televisione, al punto che, quando in Italia non c’era ancora, si era offerto di pagare lui allo Stato italiano tutti gli impianti della televisione, ed essere lui ad impiantare la televisione in tutta Italia, con un coraggio da leone; cosa che non gli fu consentita dal governo italiano, dagli organi critici. Ma ci dà l’idea della sua grandiosità di idee.
Ora lui vedeva che la maggior parte degli uomini sono solo raggiungibili dagli strumenti della comunicazione sociale, e non in altro modo, per cui la sua grande intuizione è che quegli stessi strumenti non sono solo suppletivi, o complementari ai mezzi tradizionali della predicazione e della diffusione della Parola di Dio, ma sono necessari, indispensabili per arrivare a tutti gli uomini. Questa è la sua grande intuizione che ha reso anche difficile l’approvazione della Società San Paolo, perché questa mentalità non c’era, mentre oggi è accettata. Diciamo pure che la Chiesa ha interamente assorbito e fatto sue le concezioni di don Alberione, ma ai primi tempi non era così. Quando lui chiedeva l’approvazione della Società San Paolo la Congregazione romana rispondeva che la stampa non può essere uno strumento d’apostolato, non vedevano nella stampa un mezzo d’apostolato. E lui invece vedeva nella stampa - ripeto - non un mezzo ausiliare, ma sostanziale per giungere a tutti gli uomini. Questa è stata la sua intuizione, per cui è stato veramente l’apostolo dei mezzi della comunicazione sociale in maniera assoluta.
D. – Si può anche dire che l’apostolato paolino ha un carattere sacramentale?

R. – Senz’altro lui vedeva il ministero della vocazione paolina, e diceva: “Il sacerdote predica ad uno sparuto gruppo di persone, ossia pesca con l’amo: noi invece con gli strumenti della comunicazione sociale peschiamo con la rete, ossia andiamo alle masse, arriviamo alle grandi masse sociali, alle quali mai si arriverebbe attraverso la Parola. Impressionato poi - quando ebbe cognizione in un secondo tempo - delle masse dell’Oriente, diceva: “Se san Paolo vivesse oggi, andrebbe in Cina, dove c’è la maggior parte degli abitanti della terra. Sentiva la responsabilità che noi abbiamo verso quei popoli, di portare a quegli uomini il Vangelo, e diceva: “Come glielo portiamo? Con la predicazione? Non ci arriveremmo mai; possiamo arrivare alle grandi masse popolari esclusivamente attraverso gli strumenti della comunicazione sociale”. Quindi sotto questo aspetto ha avuto un’intuizione che nessun altro ha mai avuto prima di lui, di vedere proprio i mezzi della comunicazione sociale come un elemento necessario, indispensabile, per la predicazione del Vangelo.

D. – E’ molto interessante vedere come lo Spirito Santo suscita forme di vita consacrata lungo la storia a secondo delle esigenze dei tempi: ad esempio gli ordini ospedalieri quando lo stato non poteva più avere ospedali a causa delle invasioni dei barbari, oppure i Francescani che andavano presso i poveri come ordini mendicanti, ecc. Ecco, anche i Paolini oggi sono una creazione dello Spirito Santo, persone che si consacrano per l’evangelizzazione tramite i mass media, un campo così attuale e fondamentale per le persone. Rimanendo dietro le quinte, operano con quello stesso cuore di san Paolo che pulsa, con entusiasmo e con passione, per annunciare alla gente il Cristo, così come facevano e fanno i Francescani tra la gente in itineranza. Cosa entusiasma nella vocazione paolina?

R. – Penso che l’entusiasmo per una missione come quella paolina possa essere dato dall’enorme efficacia che questi strumenti hanno. Strumenti che però lasciano gli operatori dietro le quinte, e che richiedono quindi una grande umiltà, nell’accettare di non essere messi in evidenza come protagonisti di questi mezzi. Il più delle volte uno resta nascosto, ecco allora la difficoltà: se io parlo, predico alla gente, ho un contatto diretto con le persone, che mi dà anche una certa soddisfazione, quello di vedere in faccia le persone a cui parlo. Se parlo ad esempio alla radio - come faccio da undici anni tutti i mesi a Radio Maria - posso avere circa due milioni di ascoltatori, ma io non li vedo: ho davanti solo quelle due o tre persone che sono dentro alla regia e alla redazione da cui parlo. Ecco non ho la soddisfazione del contatto diretto col pubblico: da parte mia un poco ce l’ho perché ricevo molte domande per telefono a cui rispondo in diretta: perciò ho un contatto col pubblico attraverso il telefono, ma mentre parlo, mentre faccio la mia esposizione, non ho quella soddisfazione che può avere anche un semplice catechista che parla ai suoi ragazzi, che li vede, li guarda negli occhi, che vede le reazioni che hanno. Invece in radio io devo immaginare tutto, devo supporlo. Devo farmi una sensibilità a ciò che la gente gradisce e ascolta e a ciò che invece la gente non gradisce e per cui gira canale, perché non interessa. Quindi mentre col contatto diretto con le persone uno si rende ben conto se le sue parole, i suoi discorsi interessano o annoiano; al contrario chi agisce tramite questi strumenti non vede il loro effetto e non percepisce immediatamente il bene che fanno alla gente nelle loro case.

D. – Si potrebbe dire che la vita paolina ha qualcosa di simile alla vita claustrale, cioè a quei religiosi che seminano tramite la preghiera per tutti da dietro le quinte? I Paolini non fanno lo stesso pregando e realizzando media che raggiungeranno tanti che non conosceranno mai?


R. – Sì, esattamente. Infatti noi nei primi tempi venivamo visti come i nuovi benedettini, i benedettini moderni, l’”ora et labora”, la preghiera e il lavoro, il lavoro nascosto. Pensiamo per esempio a tutto il lavoro nascosto di quei copisti benedettini che ci hanno dato la ricchezza della cultura cristiana e anche laica: altrimenti sarebbero state tutte opere andate disperse. Tuttavia noi non sappiamo neanche i nomi di coloro che compivano questa grande opera, questa grande missione: non ne conosciamo i volti, non ne conosciamo i nomi, e lavoravano proprio dietro le quinte.
Ecco anche per noi Paolini è un po’ così, è un lavoro nascosto che ha una grande efficacia da un punto di vista dell’espansione, ma non ha altrettanta efficacia da un punto di vista della soddisfazione della persona. Una frase di don Alberione: “Il parroco parla ad uno sparuto gruppo di persone: invece attraverso gli strumenti di comunicazione sociale noi arriviamo alle masse”. Una volta si arrivava alle masse attraverso la parola; quando noi leggiamo le vite dei grandi predicatori come san Bernardino da Siena, san Francesco d’Assisi, vediamo che uno dal pulpito dava il là a tutto il paese, a tutta la società, perché la società era molto religiosa, e la parola del predicatore veniva ripetuta da coloro che avevano partecipato a coloro che erano nelle case: per cui veramente dal pulpito uno riusciva ad arrivare a tutti. Oggi non è più così: sia per il grande aumento della popolazione, sia proprio per le esigenze attuali, per cui non possiamo arrivare alle masse se non coi mezzi della comunicazione sociale.

D. – Ha qualche avvenimento particolare che ricorda?

R. – Sì: sapete quando al Primo Maestro sono “scappati anche a lui i quattro cavalli”? Quando non gli riconoscevano la Pia Società San Paolo perché secondo alcuni la stampa non poteva essere un mezzo di apostolato. “Ma come, approvate i trappisti che diffondono cioccolato e liquore, e non approvate noi che diffondiamo il vangelo!”. Questo è stato l’argomento decisivo!
E’ stato veramente un grande don Alberione, un grande genio, con questa sua intuizione. Perché ancora adesso molti sacerdoti ti fanno il loro giornaletto e pensano che questo sia una integrazione della predicazione. Lui non vedeva i mass media come sussidiari alla predicazione, ma come i protagonisti della predicazione. La gente in chiesa non và; le grandi masse come le raggiungi? Don Alberione fu impressionato dalle grandi masse in tutto il mondo, della Cina, dell’India: come le raggiungeremo? Mai le raggiungeremo con le parole; le raggiungeremo solo attraverso questi mezzi.

D. – Don Amorth, a suo modo di vedere quali potrebbero essere oggi, per un giovane in ricerca vocazionale, gli aspetti attraenti del carisma paolino, magari filtrati attraverso la figura di questo nuovo beato che la Chiesa si appresta ad elevare agli onori degli altari?

R. – Non c’è dubbio che Don Alberione ci ha lasciato scritto che si debbano usare anche quegli strumenti della comunicazione sociale che il genio umano inventerà in futuro. Quindi egli ha già avuto una intuizione notevole: non esisteva ad esempio internet ai suoi tempi e nonostante questo tuttavia immaginava già quanti nuovi strumenti sarebbero nati in seguito. Egli diceva che noi dobbiamo usare quegli strumenti più celeri ed efficaci: questa frase è inserita anche nelle nostre Costituzioni ed è stato sicuramente il suo leit-motiv. Ai giovani credo che si debba arrivare a loro innanzitutto dimostrando l’importanza fondamentale della Parola di Dio, del Vangelo e della salvezza da portare a tutti gli uomini: questa è la base fondamentale da cui non si può prescindere e la base di partenza. Poi, dobbiamo entusiasmare i giovani prospettando l’uso di questi mezzi in forme molto efficaci. Non possiamo arrivare ai giovani attraverso gli strumenti del passato. In parte si, perché hanno ancora una loro ragion d’essere ad esempio sia il libro che il giornale: essi continueranno ad esistere perché, da un punto di vista psicologico, la gente, se ha una notizia della quale ha interesse e la sente magari per radio, ha bisogno poi di andarsela a leggere nel giornale per averne la conferma. Direi proprio che dobbiamo fare memoria di quanto dice San Luca nel suo Vangelo (Lc 1, 4), rivolgendosi a Teofilo, in merito alla ‘conferma degli insegnamenti in cui sei stato istruito’, che l’evangelista trasmette proprio per iscritto: la stampa continuerà ad essere proprio una ‘conferma’ degli insegnamenti orali e non credo che su questo si possa prevedere un tramonto.
Tuttavia i mezzi di accesso che aprono la via non sono più la stampa ma altri. Per esempio nei giovani fa oggi molto presa lo sport. Uno sportivo va magari a vedere la partita e poi ci tiene a comperare il giornale sportivo per vedere i commenti e confrontare l’apprezzamento dei giocatori dato dal giornalista con il proprio paese. Mentre chi non è sportivo non è interessato né a vedere la partita né tanto meno a leggere il giornale sportivo. Quindi che la stampa resti fissa come conferma per gli insegnamenti orali non c’è dubbio, ma che il mezzo primo per arrivare alla gente non sia più la stampa ma sia l’insegnamento visivo e, in misura minore, auditivo, credo che non ci sia davvero dubbio.
In conclusione penso che i giovani d’oggi possano essere attratti dalla forma di predicazione del Vangelo e dalla forma di diffusione della Parola di Dio se si prospetta a loro la possibilità di ingerirsi e di diventare in certo senso protagonisti dell’uso di questi strumenti.

D. – Un aspetto davvero sorprendente è che Don Alberione è una personalità poco conosciuta. Sono molto più conosciute le sue opere, come Famiglia Cristiana, che difficilmente vengono collegate ad una congregazione religiosa, chiamata Società San Paolo, fondata proprio da Don Giacomo Alberione. Quale potrebbe essere allora oggi il modo per farlo conoscere bene al pubblico?

R. – Non è facile farlo conoscere perché quando ci si dedica alla diffusione del Vangelo attraverso gli strumenti della comunicazione sociale, gli operatori restano nell’ombra. Io ricordo quando solo negli ultimi tempi una figura come don Zilli, direttore di Famiglia Cristiana, anche perché intervistato in televisione e da altre riviste, aveva acquistato una certa notorietà. Ma solo una certa notorietà. Nei primi decenni io dicevo: ecco tutto il mondo cattolico italiano conosce Famiglia Cristiana ma nessuno conosce don Zilli e chi lavora con lui. Noi abbiamo lavorato molto nella stampa, si conoscono i libri, si sa cosa erano le Edizioni paoline (oggi Edizioni San Paolo e Paoline) ma chi ci sta dietro, chi opera alla linotype - prima ancora si componeva a mano ed io stesso lo ho fatto a lungo - resta il più delle volte dietro le quinte. E penso che questa circostanza in buona parte continuerà a sussistere perché è una delle caratteristiche proprie di questi mezzi di comunicazione. Questi ultimi arrivano fino in mano alla gente, piaccciono e vengono apprezzati, ma coloro che ci lavorano restano dietro le quinte. Ecco perché una figura come Don Alberione è poco conosciuta. Anzi, andando più indietro c’è una persona molto meno conosciuta di lui, il beato Timoteo Giaccardo (il braccio destro di don Alberione). Io ricordo che, pur avendoci parlato insieme solo due volte, entrato da poco in congregazione, restai toccato quando morì a Roma. In quell’occasione si fece il funerale ad Alba e, nonostante che fosse di Narzole, un piccolo paese lì vicino, c’erano solo due gatti: praticamente eravamo quasi tutti della Famiglia Paolina ma pochissimi del suo paese. Chi conosceva Timoteo Giaccardo? Era conosciuto solo all’interno delle nostre congregazioni per le sue opere ed i suoi scritti ma non per la sua persona. Il Primo Maestro, essendo il fondatore, ha avuto una notorietà maggiore ma non certo conforme a quella che è la sua opera, visto che anche lui non ha potuto esimersi da questa regola che vale per chi lavora a contatto con questi strumenti. Egli quindi a tutt'oggi non è conosciuto. Questo succede a mio avviso perché solo le opere popolari fanno conoscere le persone, come è avvenuto ad esempio per Madre Teresa di Calcutta, la quale ha realizzato opere sociali. Solo in questo caso si viene conosciuti. In caso di giornali e riviste o televisioni si conoscono le opere ma non le persone che ci stanno dietro. Il personaggio resta il più delle volte nell’ombra, a meno che non sia egli stesso protagonista delle trasmissioni, come ad esempio forse succede per un Enzo Biagi.

D. – Che significato ha, nella storia della famiglia paolina e della Chiesa universale, la beatificazione di Don Alberione? Che significato ha, secondo lei, il fatto che questo succeda proprio in questo momento particolare?

R. – Secondo me ha una grande importanza che questo sia avvenuto proprio in questo momento perché, mentre il personaggio popolarmente non è molto conosciuto, viene però riconosciuta ora la sua opera, il fatto che proprio lui ha intuito l’importanza degli strumenti della comunicazione sociale come strumenti indispensabili di evangelizzazione. Al momento presente quindi la beatificazione di don Giacomo Alberione è un riconoscimento totale di questa sua intuizione. Direi che il primo riconoscimento ufficiale è stato dato dal documento conciliare ‘Inter Mirifica’, nel quale, in buona sostanza, la Chiesa ha sposato le idee di Don Alberione, le ha fatte sue e le ha proposte a tutta la Chiesa universale. Però il personaggio era rimasto nascosto dietro le quinte. Il fatto che sia stato lui il primo ad avere queste grandi intuizioni non è risultato certo dal documento conciliare. Il fatto che oggi venga riconosciuta la sua persona mi sembra che abbia un grande valore anche per far riconoscere la grande importanza, nell’opera di evangelizzazione delle masse, degli strumenti della comunicazione sociale, importanza che ancora oggi non ha quanto dovrebbe avere. Potrei fare molti esempi di questo: ad esempio perché non dichiarare che, se una persona non può assistere personalmente alla S. Messa in quanto malato, è pienamente valida la S. Messa vista per televisione? Oppure perché non riconoscere che, quando un direttore spirituale ha un figlio spirituale che conosce e che abitualmente confessa, possa essere valida anche la confessione fatta per telefono, con parole per cui solo i due che parlano le comprendano, evitando così che altre persone che eventualmente sentono la conversazione per interferenze possano comprenderne il senso? Questi sono esempi banali ma ci fanno capire come gli strumenti della comunicazione sociale non abbiano ancora acquistato il posto che meriterebbero. Penso che la beatificazione di Don Alberione possa essere una spinta anche in questo senso.

D. – Diceva prima, don Amorth, che i paolini erano visti nei primi tempi come i nuovi benedettini, consacrati che applicavano nei tempi moderni la regola di vita ‘ora et labora’. In questa prospettiva che valore ha per noi paolini, che come già ci ricordava Lei non godono delle soddisfazioni umane comuni agli altri operatori pastorali, la preghiera e soprattutto la preghiera mariana?

R. – E’ quello che ci sostiene. Noi siamo sostenuti dalla vita di preghiera. Ecco perché io credo che Don Alberione era un uomo di grande preghiera. Io calcolavo che pregasse non meno di sette ore al giorno. Un sacerdote dei nostri diceva che un sacerdote paolino deve pregare non meno di quattro ore al giorno: un’ora per la S. Messa, compresa la preparazione e il ringraziamento, un’ora abbondante per il breviario, un’ora per l’adorazione eucaristica, che è una delle nostre caratteristiche fondamentali, mezz’ora minimo di meditazione e un’altra mezz’ora di preghiera personale. Si fa presto a mettere insieme quattro ore di preghiera! E lui pregava moltissimo in quanto, proprio perché l’operatore dei mass media non ha la soddisfazione di essere conosciuto e di avere un contatto diretto con le persone, ha bisogno, ancor più di qualsiasi altro sacerdote o catechista, di un profondo sostegno interiore. Ecco perché allora la vita spirituale, la vita interiore, l’amore a Cristo Eucaristico, l’amore alla Madonna e in generale la preghiera e la Sacra Scrittura sono il sostegno che reggono questo sforzo che molte volte non è compreso o perlomeno resta sconosciuto.

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