IL CONFITEOR di DON ALBERIONE

«Se per condiscendere a voi volesse narrarvi qualcosa di quanto ancora ricorda, [Giacomo Alberione] dovrebbe raccontare una duplice storia: la storia delle Divine Misericordie per cantare un bel "Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus". Inoltre, la storia umiliante della incorrispondenza all eccesso della divina carità e comporre un nuovo e doloroso "Miserere"...». 

«Di questa seconda storia egli medita e piange ogni giorno i varii tratti nelle conversazioni con Gesù, sperandone, per intercessione di Maria e di San Paolo, perdono totale... Recito spesso: "Pater, non sum dignus vocari filius... peccavi in coelum et coram te... abbimi come servo". Così intendo appartenere a questa mirabile Famiglia Paolina: come servo ora ed in cielo; ove mi occuperò di quelli che adoperano i mezzi moderni più efficaci di bene: in santità, in Christo [et] in Ecclesia» (AD 1-3). Con questa premessa Don Alberione, settantenne, apriva il breve testo autobiografico Abundantes divitiæ, redatto in terza persona nel 1954. È una confessione che rivela l’atteggiamento penitenziale con cui egli iniziò e concluse la sua vita e attività di fondatore. Un atteggiamento da convertito, che prende le mosse dagli errori di gioventù, commessi sotto il fascino di "cattivi maestri" e la seduzione della modernità. Ecco un cenno alla crisi di quegli anni.

Le molte deviazioni

"Dal 1895 al 1915 vi erano state molte deviazioni in materia sociale, teologica, ascetica... Un grave turbamento e disorientamento era venuto, per il precipitoso estendersi del modernismo: nella letteratura, nell’arte, nella disciplina ecclesiastica, nel giornalismo, teologia, filosofia, storia, scrittura, ecc. Molti, specialmente del giovane clero, si sviarono..." (AD 51).

All’interno di quel "grave turbamento" si era consumata la crisi personale del giovane Alberione. Una crisi, scoppiata in lui all’età di sedici anni nella primavera del 1900, che non deve essere ignorata, se determinò la sua espulsione dal Seminario di Bra ed incise tanto profondamente nella sua psicologia, da segnarla per sempre con le stigmate del "convertito". Tra la gioventù del tempo, e anche tra i seminaristi, circolavano clandestinamente pubblicazioni che Don Alberione definirà libracci e giornalacci. Il giovane ne fu in qualche misura coinvolto e visse una crisi di smarrimento morale ed intellettuale, durata diversi mesi. Di quello smarrimento troviamo cenni nel suo diario giovanile, nel quale allude a un’anima avvilita tentata dal suicidio, ma fiduciosa nella Vergine, cui rivolge l’invocazione: "Salvami, o Maria, da sì terribile stato". Accenna al difficile compito di tenere a freno la fantasia e la sensualità, che tentano di prevaricare. Ripensando alla adolescenza, afferma: "Trascorsero anni turbinosi per il mio naturale, fatali per il mio istinto che anelava alla lode, alla grandezza; male illusioni tennero dietro alle illusioni...". Infine un bagliore di salvezza: "La grazia di Dio e Maria mi salvò". Cui segue la preghiera: "O Maria, intercedi per me!... Mostrami la via, la strada... "Salva me, fons pietatis"" (cfr. "Sono creato per amare Dio").

Una crisi spirituale profonda, dunque, dovuta alla confluenza di due perturbazioni – l’una di carattere affettivo e l’altra intellettuale – mediata questa da una invasione devastante di letture incontrollate. Ed è comprensibile che ne derivasse per lo spirito del giovane una specie di vertigine, come per un naufrago travolto da un turbine. Di qui l’esperienza della conversione, come illuminazione, riunificazione interiore e orientamento. Il ricordo dei suoi errori giovanili e di ulteriori mancanze accompagnò sempre l’esistenza di Giacomo Alberione, con l’acquisizione di una sincera umiltà, della quale troviamo testimonianze nei suoi taccuini personali. Vi leggiamo espressioni sorprendenti, persino eccessive, come le seguenti:

"Confiteor...:

Confesso che tutto in me è infermo: mente, cuore, corpo;
confesso che, ciononostante, io spero il cielo fermamente e con tutto il cuore;
confesso che spero di farmi santo, contro ogni umana ragione e speranza...
Confesso che tu solo, Signore, sei la santità;
che la tua misericordia eccede ogni umana debolezza...
Fui tanto peccatore, e ho disseminato la vita di iniquità.
Si sappia però:
che io per primo condanno la mia vita orribile;
che di essa chiedo un perdono generale a Dio;
che ne domando perdono a tutti...;
che io non ho altra speranza se non nel sangue, nelle piaghe, nel cuore di Gesù, nella sua
Verità e Sapienza, nella sua Vita santissima; poiché egli ha detto: Sono venuto a salvare ciò che era perduto"

(Quaderni 1-5).

Il primo frutto: la devozione a Gesù Maestro

Una mano amica, mossa da Dio, trasse il giovane dal naufragio e lo condusse al "faro". Il Canonico Chiesa fu per Don Alberione come il santo Anania per il convertito Saulo: un padre, un maestro di vita, una guida e una garanzia. Egli offerse al giovane seminarista il criterio essenziale di orientamento: la luce del magistero pontificio. "Quando non sai a chi appellarti per capire dove sta il Cristo, la sua Verità e la via sicura, guarda al Papa".

E il papa Leone XIII fu per Giacomo Alberione "il Faro" che gli aprì l’accesso al Maestro divino. La sua enciclica Tametsi futura (1° novembre 1900) divenne per lui un programma di spiritualità e di impegno missionario.

In un manoscritto inedito Don Alberione fa riferimento alla "luce" di quel magistero: "L’anno scolastico 1900-1901 fu pieno di luce e grazia. La notte di chiusura del secolo scorso e di inizio del secolo nuovo, nell’adorazione (dalle 23 di sera alle cinque del mattino) fatta nelle intenzioni di Leone XIII e di Mons. Re Vescovo [di Alba] capii tante cose: quelle illustrazioni furono decisive per il mio spirito e per l’apostolato futuro".

Nella sua breve autobiografia, Alberione concludeva la narrazione degli "anni turbinosi" con questa annotazione: "Tutto gli fu scuola" e l’approfondimento della filosofia di San Tommaso gli offerse "vantaggio spirituale e guida... confermandosi nella convinzione che non vi è nessuna santità dove non vi è la verità..., nessuna veduta larga senza la metafisica; nessuna via sicura se non nella Chiesa"(AD 90-92).

Non meno determinanti furono i documenti del papa Pio X, riguardanti la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Cristo vivente nell’Ostia è il "faro" personificato, che al futuro Fondatore si manifestò come rivelazione, il Maestro assoluto, da seguire e al quale dedicare tutta la propria vita.

Di qui il senso forte e concreto di devozione al Maestro divino.

L’atteggiamento tipico del giovane che scopre un maestro carismatico è quello di legarsi a lui con tutta la passione della mente e del cuore: entusiasmo, ammirazione, fede e obbedienza incondizionata. Tale fu la "devozione" del giovane Alberione, che così la descrisse: "La devozione è consacrazione, dedizione, donazione totale ed integrale di noi stessi, nelle forze fisiche, morali, intellettuali, ed anche nell’essere da cui provengono le forze. In tal senso, essere devoti di Gesù Maestro significa prendere e dare tutto il Maestro Divino nella sua luce, nel suo spirito, nei suoi esempi e nella sua grazia" (Prediche sul Divino Maestro, Pr DM, 36).

E lo stesso Fondatore confidò: "Quando fu predicata la prima volta questa divozione dal Rettore del seminario, tra il Natale 1900 e l’inizio del 1901, sentii come una rivelazione. Capii che questa pratica prendeva tutta la vita... e sentii il desiderio che tutti conoscano, pratichino e vivano questa devozione..." (Alle Suore Pastorelle, 1955)Essa, "praticata bene, dà a Dio un culto completo...; deve partire dalla pietà ed estendersi a tutta la vita" (Pr. DM, 80).

Vivere integralmente tale devozione significa vivere un’amicizia adulta, forte e intensa con Gesù, considerato il Maestro da ascoltare, la Guida da seguire e il Modello da imitare, l’Amico con il quale immedesimarsi: per vivere la sua vita, contare sul suo amore e sulla sua mediazione.

"Accetto volentieri tutto..."

L’umiltà, acquisita e francamente espressa con il suo "confiteor", aveva disposto Giacomo Alberione, fin da giovane prete, ad accogliere ogni giudizio umano sul suo conto: "Accetto volentieri tutto il male che si dice e si dirà di me anche dopo la mia morte. Accetto volentieri le vere accuse, poiché si dirà sempre meno di quanto meriti uno che "ha di nuovo crocifisso il Cristo Gesù".

Accetto volentieri anche le false interpretazioni ed accuse, gli insuccessi che umiliano..., tutte le confusioni, penitenze, dolori... Confesso però che Gesù può far nascere da ogni terreno dei fiori: rose, gigli, margherite; anzi grano e vite che danno la materia al sacrificio dell’Eucaristia; e ne risulterà una nuova e miracolosa vita di Gesù Cristo, Verità, Via, Vita" (Quaderno 35).

Ecco il frutto della maturità, di colui che vantava come unica sua gloria quella di avere vissuto e insegnato la "devozione" divino Maestro, e che si considerava un "discepolo semicieco", che avrà sempre da imparare fino al termine della vita.

Eliseo Sgarbossa

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